Glorie e miserie dalla Trincea : Fronte italiano 1915-1918

Riportiamo il primo capitolo del volume di: Tenente Anonimo (Giuseppe Comelli), Glorie e miserie dalla Trincea, Omero Marangoni Editore, Milano, 1934 (conservato presso la Biblioteca “Lorenzo Lodi”) e alcune fotografie riprese dal volume stesso.

Costretto a chiudere la sua libreria, per aver preso a ceffoni alcuni squadristi che gli contestavano l’esposizione di libri “scomodi”, con lo pseudonimo di “Tenente Anonimo” scrisse negli anni ’30 alcune opere di carattere militare. Ardito e lanciafiammista in guerra, artigliere libico, residente dancalo e comandante di bande in AOI, organizzò, dopo la caduta dell’Impero, un nucleo di resistenza clandestina: condannato a morte dagli Inglesi e catturato, nel 1942 riuscì a fuggire e rimpatriare con i profughi su una delle navi ospedale.
Passato al SIM, voleva raggiungere nuovamente l’Etiopia, ma cambiati i piani venne inviato in Marocco dove costruì una rete informativa intorno al Q.G. del Generale Clark.
Dopo l’armistizio gli venne chiesto da Roma di presentarsi agli Alleati, ma la condanna che ancora pesava sul suo capo gli fece preferire una latitanza in Spagna, da cui tornò nel 1946.
Nel dopoguerra finì come impiegato in un ufficio previdenziale dello Stato, tra bolli e scartoffie.

CHIAMATA ALLE ARMI
Senza-titolo-18Il 10 Settembre 1913 fui chiamato alle armi. Presentazione al distretto: ritiro di una coperta, di un tascapane e di una gavetta e parto alla volta di Milano con un treno lumaca.
Arrivo a Milano di notte con una comitiva di 10 coscritti, vado alla ricerca della caserma in in Corso Porta Vittoria. Bussiamo al portone… dopo una buona mezz’ora ci aprono e ci conducono in una stanza dove ci vengono messe a disposizione tre balle di paglia.
Comincia la prima caccia: sciogliamo la paglia ed in due minuti tutti si sono arrangiati sollevando un polverone che durerà tutta la notte.
Ci distendiamo alla meglio e tentiamo di dormire, ma appena dopo quattro ore una strombettata seguita da un vocio infernale mette la caserma in subbuglio. E’ la sveglia.

«Ammucchiate la paglia!» grida un soldato col sottogola; noi atterriti, eseguiamo e poi veniamo portati in cortile al fresco, a disposizione di un caporale.
Dieci cappelle – come tutti ci chiamano – siamo a disposizione del caporale Minosse. Incomincia l’interrogatorio e tutti rispondiamo o con starnuti o con una voce molto rauca.
La polvere della paglia sballata, ed ammucchiata di poi, aveva fatto i suoi effetti; io nel rispondere annaffio la faccia del caporale: questi urla un – «dietro-front!» – io mi volto con tutto candore e… mi busco una tremenda pedata in fondo alla schiena.
Vorrei reclamare, ma temo di peggio e mi rassegno con un po’ di tristezza.
Alle ore 9 ci vestono, a ciascuno di noi vien dato un abito di tela’ ed una specie di copricapo fatto a busta. I nostri abiti borghesi vengono infagottati e riposti in un magazzino.
Scarpaccie, pezze da piedi dure come se fossero di carta incatramata, una branda ed un materassino completano il nostro corredo. Alle dieci ci disponiamo in fila davanti alle cucine per ritirare il brodo e la pagnotta, ma con grande meraviglia vediamo che gli ultimi arrivati prendono il rancio prima di noi. lo protesto e mi scaraventano fuori dalla fila con un cazzotto accompagnato da un coro: «Via, brutta cappella».
I primi giorni di caserma sono penosi: gli anziani sono i peggiori nemici.
Una cappella non può prendere la razione prima di loro, non può sedersi a mangiare ad un tavolo, non può andare in città la sera e deve accudire ai più umili servizi: la pulizia alle latrine, il trasporto dello stallatico, ramazzare il cortile, lavare il naso ed il resto ai cavalli che tornano dalla passeggiata.
Ogni giorno sparisce qualche cosa dal corredo della cappella: la gavetta, il cucchiaio, le scarpe, il lucido da scarpe, i bottoni, le forbici, il filo da cucire, il berretto e tante altre piccole cianfrusaglie necessarie.
Queste non si possono più trovare né riconoscere anche se le porta il vostro vicino; tutto è uguale, tutto è fatto in serie.

Quando siete sicuri di aver scoperto addosso al compagno un vostro oggetto, è la volta che vi buscate qualche cazzotto se reclamate o protestate,
Ricordo che dopo sei giorni di caserma, una sola gavetta era rimasta a noi dieci cappelle e dovevamo mangiare con tutta fretta a due a due nello stesso recipiente, servendoci anche del coperchio come piatto, perché la distribuzione del rancio durava mezz’ora al massimo: non è molto per poter mangiare in dieci.
La razione di carne, che è abbondante e squisita, si riduce per le cappelle ad uno stuzzicadenti con infilzati cinque o sei pezzettini di ciccioli che i cucinieri chiamano «filzette».
Queste filzette sono i rimasugli del raschiamento degli ossi del lesso e servono per fare il numero esatto delle razioni di carne, pari alla forza presente di una batteria.
Assiste alla distribuzione del rancio un ufficiale, quasi sempre di prima nomina, che non dice mai nulla. Se vede alcunché di anormale, se ne guarda bene di riferirlo ai suoi superiori. […]