La nascita dell’Associazione ex Granatieri – tale era la denominazione iniziale – risale agli inizi del 1911 a Milano, per iniziativa personale del Commendatore Enrico Torrani, fondatore di alcune importanti industrie di cereali, il quale, già Granatiere della 7a compagnia del 1° Reggimento Granatieri di Sardegna, cominciò a gettare le basi del Sodalizio raccogliendo i Granatieri che avevano prestato servizio nei due Reggimenti della Specialità, il Primo ed il Secondo, perché “continuassero nella vita civile a coltivare, in fraternità di spirito, quelle amicizie e simpatie cameratesche acquisite in guerra o sui campi di battaglia“.
La costituzione ufficiale dell’Associazione ebbe luogo il 14 aprile 1912, con un’Assemblea tenutasi a Milano presso la “Casa del Soldato” di Via della Signoria, durante la quale fu anche benedetta la Bandiera sociale.
Il Sodalizio cominciò a prendere sempre più forza specialmente con la massiccia affluenza dei reduci della Brigata, tornati alla vita civile dopo le cruente e gloriose vicende della Prima Guerra Mondiale.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il Sodalizio ebbe la denominazione attuale di Associazione Nazionale Granatieri di Sardegna e si diede l’avvio alla stampa di un giornale nazionale dal titolo “Il Granatiere”, che si pubblica tuttora.
Il 16 ottobre 1954 un Decreto del Presidente della Repubblica riconobbe la personalità giuridica del Sodalizio ed approvò il suo Statuto.

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Lo Statuto dell’Organismo, approvato dal Presidente della Repubblica in data 16 ottobre 1954, all’articolo 2 fissa gli scopi dell’Associazione che sono: conservare a rafforzare tra i granatieri in congedo i sentimenti di fraternità e di solidarietà che, nati dall’adempimento del comune dovere verso la Patria, hanno sempre costituito particolare caratteristica dei Granatieri; mantenere desto nello spirito dei vecchi e dei giovani granatieri in congedo e nella coscienza di tutti gli italiani il ricordo delle glorie trisecolari dei granatieri di Sardegna, mediante cerimonie, commemorazioni, conferenze e pubblicazioni diverse; assistere moralmente e materialmente i soci bisognosi e le loro famiglie.

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I Granatieri nella difesa di Roma (8, 9 e 10 settembre 1943)
A Roma, nello sbando generale e nelle incertezze di quei tragici giorni, solo la Divisione Granatieri di Sardegna, con alcuni reparti a lei dati di rinforzo, seppe costantemente tener chiaro il proprio dovere e lo fece fino in fondo, con gran prezzo di sangue. Senza arrendersi mai e continuando a combattere anche nei momenti in cui la preponderanza avversaria costringeva al ripiegamento. Il merito dei Granatieri e del loro comandante, il generale Gioacchino Solinas, in quell’occasione, non fu solo quello di salvare l’Onore delle Armi italiane, ma ebbe l’effetto pratico di impegnare per tre giorni importanti forze tedesche che, altrimenti, sarebbero state destinate a contrastare lo sbarco alleato di Salerno. Quindi, l’azione disperata ed eroica dei Granatieri di Sardegna non fu solo una difesa simbolica della Capitale che, fra l’altro, per motivi facilmente intuibili non poteva essere condotta ad oltranza, ma ebbe anche una precisa valenza operativa in termini più prettamente militari.
E questo i cittadini romani lo sanno e i più anziani lo ricordano bene. Quei cittadini romani che, senza distinzione di sesso, di età e di posizione sociale, in innumerevoli episodi sostennero l’azione dei Granatieri, arrivando perfino a combattere al loro fianco, con le armi recuperate dai caduti. La gente della Garbatella, della Montagnola, della Pisana, della Magliana, di Cinecittà, della Cecchignola, di San Giovanni, di Porta San Paolo, del Colosseo e di tutte le altre zone di quell’arco ideale che va da Via Boccea alla Via Collatina sa benissimo quanto i Granatieri hanno fatto in quelle tragiche giornate e come lo hanno fatto.
In particolare, i combattimenti di Porta San Paolo che, nell’accezione comune, corrispondono erroneamente a quella che viene definita Difesa di Roma, sono stati, in effetti, gli scontri finali di una battaglia durata circa tre giorni e che si era sviluppata lungo un arco virtuale di circa 28 Km, a Sud della Capitale e da Via Boccea a Via Collatina.
Altre cinque grandi unità completavano lo schieramento difensivo della Capitale: la Divisione motorizzata Piave, schierata a Nord, la Divisione di fanteria Sassari che, a ranghi ridotti, presidiava il centro della città con compiti d’ordine pubblico, la Divisione autotrasportata Piacenza, schierata in prima linea verso il mare, e le Divisioni corazzate Ariete e Centauro dislocate nella zona compresa fra Guidonia e Tivoli.
La Divisione Granatieri, reduce dal Fronte Balcanico, già dalla fine di luglio del ‘43 era spiegata su tredici capisaldi e quattordici posti di blocco, collocati in corrispondenza delle rotabili d’accesso alla Capitale, concepiti, essenzialmente, per contrastare un eventuale attacco angloamericano.
II presidio di questi apprestamenti difensivi era assicurato dai reparti della Divisione stessa, ossia dai Granatieri del 1° e del 2° reggimento, dagli Artiglieri del 13° reggimento e da quelli della 18° Legione della Milizia controaerea.

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I combattimenti presero l’avvio alle ore 21,00 circa del giorno 8 settembre, presso il caposaldo n. 5, dislocato nella zona del ponte della Magliana e proseguirono fino a circa le ore 17 del giorno 10 settembre, interessando, in misura variabile, tutti i restanti capisaldi e, dopo il ripiegamento, la zona della Piramide Cestia, del Colosseo, di Porta San Paolo e di San Giovanni.
I capisaldi furono tutti attaccati ed ognuno di essi divenne pertanto centro di combattimenti ravvicinati e di corpi a corpo, specialmente violenti quelli della zona estrema meridionale tra la Via Ostiense e le Capannelle e quelli sulla Via Laurentina.
Molto aspra fu la lotta soprattutto attorno ai caposaldi n. 5 e n. 6. Il caposaldo n. 5, caduto in parte in mano del nemico, poté essere riconquistato dai granatieri con il valido concorso dei Lancieri di Montebello. Intanto la Divisione Paracadutisti germanica premeva strenuamente nel settore di destra lungo la Via Ostiense ma ogni attacco fu dai granatieri fermamente rintuzzato, sì che la Divisione tedesca si vide sbarrato il passo fino al pomeriggio del giorno 9. Verso le ore sedici di tal giorno i paracadutisti germanici facevano sostare dinnanzi al caposaldo n. 6 in corrispondenza della Via Laurentina una colonna di oltre cinquecento militari italiani prigionieri, disarmati; un ufficiale germanico intimava la resa del caposaldo, rivelando che in caso di mancata accettazione della resa avrebbe fatto passare per le armi i prigionieri italiani. Ma la minaccia non sortiva l’effetto desiderato, in quanto il valoroso comandante del caposaldo, tenente colonnello D’Ambrosio, rispondeva che «i granatieri di Sardegna non conoscono la parola resa» ed i germanici si ritiravano.
Lo stesso caposaldo n. 6 nel pomeriggio vide cadere tra i primi in un furioso corpo a corpo il capitano dei Granatieri Vincenzo Pandolfo, alla cui memoria è stata poi concessa la medaglia d’oro.
E medaglie d’oro alla memoria sono state concesse anche al tenente dei Granatieri in congedo invalido di guerra reduce di Grecia Raffaele Persichetti che volontariamente, in abiti civili, rientrò nei ranghi immolandosi in Porta San Paolo (una via è stata intitolata in Roma al suo nome) ed al sottotenente dei Granatieri Luigi Perna, figlio del colonnello Umberto, che catturato dai tedeschi riuscì a sfuggir loro e poi al comando di un plotone si battette contro essi in retroguardia cadendo sulla Montagnola di San Paolo.

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La Montagnola e Porta San Paolo, Porta San Giovanni e Porta Ostiense, il Ponte della Magliana e l’Acquacetosa, la Via Laurentina e la Via Ostiense, il Forte Ostiense e l’Esposizione Universale furono i tanti altri teatri di eroici comportamenti individuali: del colonnello Giuseppe Ammassari che preso in ostaggio dai tedeschi ed utilizzato come scudo per avanzare verso un ponte diede ordine egli stesso ai suoi granatieri di far fuoco non preoccupandosi di poterlo colpire ed i granatieri obbedirono pur riuscendo fortunosamente a fare in modo che l’ufficiale potesse salvarsi; del sottotenente principe Alessandro Odescalchi che da solo e allo scoperto si spinse all’imbocco della Via Appia a lanciare una bomba a mano contro una camionetta tedesca che avanzava correndo e sparando all’impazzata; del capitano Sigmund Pago Golfarelli che con un gruppo di granatieri resistette sotto i fornici di Porta San Giovanni; del tenente Argo Pasquizzi che resistette a sua volta sulle posizioni più avanzate lasciandovi un braccio; del tenente di complemento in congedo Enrico Brunelli padre di un granatiere in armi che si presentò spontaneamente in Porta San Paolo, raccolse l’arma di un caduto e si pose a combattere a fianco dei giovani commilitoni restando ferito; del granatiere Montedoro che si lanciò ancora in un furibondo corpo a corpo benché già ferito; del granatiere Gocci caduto a fianco del suo ufficiale tenente Perna; del maggiore Felice D’Ambrosio lanciatosi alla testa del suo battaglione; del tenente Paolo de Cesaris avanzante alla testa del suo plotone reclute; del sottotenente Gino Nicoli deceduto per aver trascinato su un campo minato un carro tedesco; del granatiere Mario Santini fatto prigioniero e sfuggito ai tedeschi con audace colpo di mano pur rimanendo ferito; del tenente Gaddo Soldi; del sottotenente Guido Spadini rimasto amputato di una gamba e semiparalizzato nell’altra durante il bombardamento nemico contro Forte Ostiense (soltanto il giorno dopo potette raggiungere l’ospedale militare del Celio trasportatovi con un carrettino a mano dal granatiere Demoli e da un altro commilitone); del granatiere Serafino Zanaletti colpito a morte in volontaria rischiosa missione; dei centoventotto uomini tra ufficiali e soldati che resistettero strenuamente fino al pomeriggio del 10 settembre in Porta San Giovanni ai tedeschi avanzanti ormai in forze dall’Appia Nuova. E tra i primi caduti il comandante di una Batteria del 13° Artiglieria della Divisione Granatieri di Sardegna, figlio del colonnello Lorenzo Villoresi che era stato comandante del 2° Reggimento Granatieri durante la prima guerra mondiale. Poi, quando già si pensava di attestare l’estrema resistenza sulla linea del Colosseo e del Palazzo dell’Africa Italiana, arrivò l’ordine del “cessate il fuoco”.
Mentre si combatteva sul Fronte Sud, si ebbero numerosi scontri a fuoco anche all’interno della Città ad opera di gruppi di militari isolati o di cittadini accorsi a combattere a sostegno dei soldati. Alcuni testimoni riferiscono, inoltre, che, nonostante la cessazione delle ostilità, anche nella giornata dell’11 settembre ci furono sporadici, pur se sanguinosi, combattimenti in alcuni quartieri della Capitale.

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Leggiamo in un articolo dell’epoca:
Sbigottiti furono dopo, quando, affranti ma indomiti, sen¬tirono narrare da altri l’avventura di cui erano stati i principali protagonisti. Non un solo granatiere ha avuto una parola di rammarico, di pentimento e di rampogna: non si erano illusi di poter salvare Roma, avevano soltanto ri¬sposto all’appello della brigata, al richiamo della loro volontà, alla loro legge dell’onore.
Non dimenticheremo mai quelli che il 10 settembre 1943, rientravano a Roma. Li abbiamo incontrati sul Lungotevere dei Cenci, avevano la barba lunga, gli occhi infossati, il viso emaciato, ragazzi di poco più di vent’anni, sembravano im¬provvisamente invecchiati. Avanzavano inquadrati mar¬ciando al passo, sicuri, impettiti, nonostante la tremenda stanchezza e la profonda angoscia, marciando come se sfi¬lassero in parata. Nessuno li ha derisi, nessuno li ha com¬pianti, nessuno li ha chiamati folli o illusi. I romani che hanno avuto il privilegio di vederli quel giorno hanno ca¬pito che in quel gruppetto sparuto di granatieri, disfatti ed intrepidi, sopravviveva l’Italia.”