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A Roma il popolo non combatteva solamente a Porta S. Paolo, ma, nel primo pomeriggio del 10 settembre 1943, aveva cominciato a combattere anche all’interno della città, nei pressi della stazione Termini, a via Gioberti, via Cavour, Santa Maria Maggiore, via Paolina davanti all’allora Distretto Militare, contro quei tedeschi che, fino allora in borghese, si erano rapidamente trasformati in militari con armi ed uniformi. Essi sparavano dalle finestre degli alberghi Continentale, dalla Casa del Passeggero, dall’albergo nuovo Roma contro un gruppo d’una cinquantina di uomini tra militari e civili che, al riparo delle impalcature della stazione Termini in costruzione, rispondevano con coraggio al fuoco nemico. Ai tedeschi si erano uniti i fascisti e, tra il crepito delle mitragliatrici, uscivano dal Continentale le note dell’inno “Giovinezza”, mentre sulla piazza s’intrecciavano i discorsi: «Gli Americani?», «C’è da aspettare, se questi non li buttiamo fuori noi, non se ne vanno», «Ma a Roma ci sono tanti soldati, domani non ci sarà più nessun tedesco», «Dovremmo essere in più qui perché oggi dovrebbero combattere tutti».
Sulla piazza continuava a piovere il fuoco delle mitragliatrici tedesche, ma appena una si interruppe, un marinaio la colpì con una rapida serie di colpi ai quali i tedeschi risposero con scariche secche e rabbiose. Ad un tratto uscirono dal gruppo un tranviere, un facchino e tre giovani che centrarono i loro colpi contro le finestre del terzo e del quarto piano del Continentale. Il tranviere, gettato poi il fucile, si portò in mezzo al piazzale e lanciò contro l’albergo due bombe a mano. Una raffica però lo colpì a morte; raccolto dal facchino spirò dietro le impalcature della stazione. Cinque ragazzi seguirono il suo esempio e, con la camicia rigonfia di bombe, attraversarono di corsa il piazzale, le lanciarono tutti insieme riuscendo ad immobilizzare una mitragliatrice. Uno di essi, Angelo, fratello del marinaio, fu colpito e le sue ultime parole prima di morire furono: «Questa storia dobbiamo farla finire noi»  (brano tratto dall’”Albo d’oro dei caduti nella difesa di Roma del settembre 1943” a cura dell’Associazione fra i Romani, 1968).

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Da una testimonianza di Mario Necci:
Avevo 11 anni ma ero un uomo perché con la guerra ero cresciuto fisicamente e moralmente con file per acquistare viveri e chiedere sempre per mangiare e non sempre si aveva risposta positiva.
Erano passati uno o due giorni dall’armistizio che aveva portato in me una miriade di pensieri circa il futuro mio, della famiglia e dell’Italia. Suonò l’allarme aereo e poi sapemmo che non ci fu incursione aerea ma era per dire alle forze armate di muoversi liberamente secondo direttive che solo molto tempo dopo conoscemmo, almeno parzialmente.
Come sempre, con la mia famiglia, che abitava in Via dell’Olmata (accanto alla caserma della Guardia di Finanza), andammo alla casa dei nonni che abitavano alla parallela Via Paolina, Andavamo lì perché avevano la cantina adattata a ricovero antiaereo. Come noi vennero anche le famiglie di due mie zie (sorelle di mamma) che abitavano nei paraggi.
Andammo in cantina e dopo qualche oretta risalimmo alla casa dei nonni perché ritenevamo che non c’i fossero aerei. Eravamo chiusi in casa ed eravamo una trentina di persone fra grandi e piccoli. Era caldo e ci mettemmo, con qualche mio cugino, dietro delle imposte delle finestre, nonostante la proibizione del nonno, sempre vigile. Sentimmo un grido “Viva Mussolini” e poi la risposta “Viva Badoglio” e cominciarono a sparare.
Il proseguimento della Via Paolina, all’incrocio con Via dei Quattro Cantoni, diventa Via Sforza e vi sono due caserme dirimpettaie: il Distretto Militare e la Caserma “Giacomo Medici”: a questo incrocio poi vedemmo che erano stati messi sacchetti di terra ed una mitragliatrice. Il conflitto a fuoco era tra questa mitragliatrice e poi mi disserro una pattuglia di paracadutisti tedeschi all’inizio della Via Paolina (dalla parte di Via Liberiana, dove c’è la Basilica di S.M.Maggiore). Il conflitto durò parecchio ma si fermò per un attimo ed allora sentimmo delle grida di un uomo dalla strada e dissi al nonno di andare a vedere chi fosse. Il nonno ci proibì di uscire ed anzi ci tolse da dietro la finestra. Poi sapemmo che un soldato che tornava dal Ministero della Guerra alla sua caserma aveva chiesto ai tedeschi di poter rientrare anche perché era disarmato. I paracadutisti lo fecero passare ed a mezza strada gli spararono alle spalle. Non abbiamo mai saputo l’epilogo di questo fatto.
Il giorno dopo la vita tornò alla sua normalità, fatta eccezione che eravamo occupati dall’esercito germanico. Ricordo la guardia svizzera affacciata sulla loggia delle benedizioni della Basilica ed i cartelloni al palazzo di fronte alla Basilica con la scritta “zona extraterritoriale”.
Il mio racconto finisce con un carabiniere di mezza età (aveva i capelli bianchi) sull’attenti davanti ad un tedesco che gli strappò le mostrine, ed allora piansi.