Il caposaldo n. 7 della cintura di difesa di Roma messa in atto dalla Divisione Granatieri di Sardegna nel settembre 1943, era situato all’altezza del quadrivio di Torre Chiesaccia alla Cecchignola ed in prossimità di Tor Pagnotta tra le vie Ardeatina e Laurentina.

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Sul caposaldo 7 si verificò un atto di valore degno di un poema. Il Tenente Franceschini, che comandava un reparto di armi di accompagnamento, si accorse che una mitragliatrice stava per essere investita dal nemico. A gran voce invitò i suoi uomini a portarla indietro e si precipitò sulla postazione. L’arma era stata già afferrata da un granatiere che stava per spostarla, anche se non era uno dei serventi, quando colpito a morte dal fuoco degli attaccanti cadde abbracciato a quella mitragliatrice che voleva salvare. Era il granatiere Palmiro Gerevini.

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Dal racconto del Tenente Franceschini:
La sera dell’8 settembre 1943, alle ore 20 circa, la radio diede l’annuncio dell’armistizio. Dalle vicine casermette della Cecchignola si levarono grida e canti scomposti inneggianti al congedo e alla fine della guerra. Qualche Granatiere si fece contagiare da questa gioia inconsulta. L’intervento pronto di noi ufficiali portò subito gli uomini alla realtà. Riuniti i miei Granatieri, dissi loro che quella notte molto probabilmente avremmo dovuto duramente combattere e, richiamatili alle nostre tradizioni, diedi l’ordine di raggiungere i posti di combattimento. Il mio pensiero corse subito dopo ai mortai. Raggiunsi il Comandante del Caposaldo al quale, con maggiore fermezza di quanto non avessi fatto in precedenza e sotto l’incalzare degli avvenimenti, feci nuovamente presente l’inderogabile necessità di porre un’arma automatica per la difesa ravvicinata dei mortai. La risposta fu che da quella parte non poteva venire l’attacco nemico per la presenza, sull’avanti e a destra, del citato Caposaldo n. 6. Replicai che non si poteva escludere in modo assoluto tale evenienza la quale, sia pure con una probabilità su cento, poteva verificarsi: i fatti purtroppo mi avrebbero dato presto ragione! Di fronte a tanta intransigenza e convinto del mio “dovere” di garantire l’incolumità degli uomini e dei mortai, decisi di mia iniziativa di prendere una delle due mie mitragliatrici puntate in direzione di Torricola e di spostarla innanzi alle postazioni dei mortaisti. Diedi ordini in tal senso e col favore della notte feci sistemare la Breda 37 in una piazzola antistante le buche ove erano i mortai.
Potevano essere le 22.30 circa quando udimmo i primi colpi d’arma da fuoco provenire dalla nostra destra: non fummo in grado di capire se al caposaldo N. 6 o a quello N. 5 i combattimenti avessero avuto inizio. Ognuno, al suo posto, era pronto ad entrare in azione. Io, con i miei ufficiali, in posizione centrale, mi tenevo in misura di intervenire tempestivamente là dove l’attacco si fosse rivelato. Per oltre due ore seguimmo lo svolgersi dei combattimenti dal crepitare delle armi, dagli scoppi dei proiettili e dal lampeggiare delle esplosioni. Ad un certo punto la sparatoria si intensificò e i colpi sembravano più vicini: il Caposaldo n. 6 era entrato in azione anch’esso. Comprendemmo facilmente che il combattimento era cruento. Con l’animo teso seguivamo lo svolgersi degli eventi, convinti ormai che presto sarebbe venuto anche il nostro turno. Da poco poteva essere passata la mezzanotte quando avemmo la sensazione che la lotta si fosse placata. Seduti ai bordi della strada nei pressi del crocevia, vedemmo una pattuglia guardafili che si accingeva ad uscire dal Caposaldo. Chiesi loro ove si recassero. Mi fu risposto che andavano a riattivare la linea telefonica con il Comando del Battaglione che subito era stata interrotta. Augurammo buona fortuna a quei ragazzi che non avremmo mai più riveduti. I miei ufficiali, pensando che quella calma si prolungasse, mi andavano suggerendo di far riposare un po’ gli uomini in vista di ulteriori più gravi fatiche. Risposi loro che non era il caso: sarebbe sopraggiunta l’alba (era in vigore l’ora legale) e quello sarebbe stato per i tedeschi il momento più propizio per sferrare l’attacco. Non dovemmo attendere tanto. Infatti essi, non essendo riusciti a passare sull’Ostiense (Caposaldo n. 5) e sulla Laurentina (Caposaldo n. 6) con la facilità prevista, pensarono di riuscirvi più facilmente attraverso la via di penetrazione passante pel nostro Caposaldo. Strisciando sul terreno e non trovando ostacoli di sorta, riuscirono a portarsi a pochi passi da noi senza essere visti o uditi: avevano lavorato da maestri. Puntavano – ne avrei avuto presto la prova – sui mortai: evidentemente avevano predisposto l’attacco a quelle armi la cui dislocazione doveva essere loro ben nota per il fatto che erano prossime al “posto di blocco” e bene in vista (chi sa cosa avranno pensato di quello schieramento!). Verso le una, una e trenta, raffiche rabbiose e continue ci investirono improvvise ma non inattese. Non feci in tempo a gridare “fuoco” che già i miei uomini avevano messo in funzione tutte le loro armi. Mi gettai a pancia a terra nella cunetta della strada e strisciando cercavo di raggiungere al più presto e in buone condizioni la “mia” mitragliatrice. Mi accorsi subito però che qualcosa non andava! Vale la pena accennare al fatto che, rientrati dalla Balcania, ci avevano sostituite le canne della Breda 37 con canne nuove. Conscio della necessità per questo tipo di arma di fare preventivamente un congrue rodaggio, chiesi a suo tempo di sparare in poligono. Anche per questa richiesta la risposta fu negativa ed anche questa volta la previsione trovò la conferma. Avvertivo le difficoltà che incontravano i serventi della Breda e accelerai l’andatura per raggiungerli al più presto. Alzarsi in piedi in quel momento, significava “cadere”! Infatti i tedeschi erano sopra di noi convinti di avercela fatta, ma non avevano calcolato la presenza di uomini disposti a battersi anche in quelle condizioni. Ormai la mitragliatrice non funzionava e non ci rimanevano che i vecchi fucili mod. 91 “dalla pallottola umanitaria” e le bombe a mano (non quelle “difensive”). Diedi allora ordine al S.Ten. Tagetti di accorciare ulteriormente il tiro dei mortai, anche a costo che il fuoco coinvolgesse pure noi. Mi mancava poco a raggiungere la mitragliatrice quando mi accorsi che l’arma era in grave pericolo. Fu un attimo: al pensiero che la mitragliatrice potesse cadere in mano nemica, scattai in piedi e, gridando “non abbandonate l’arma”, balzai verso la sua postazione. Ebbi l’impressione che un’ombra mi avesse preceduto. Quando arrivai su di essa vidi un uomo riverso abbracciato alla mitragliatrice. La scarsa visibilità non mi permise di riconoscerlo. Scrutai il suo volto. Non era un servente dell’arma, non era un mitragliere, era un mortaista: era il Gran. Palmiro Gerevini. Egli, udito il mio grido, era saltato fuori dalla sicura postazione del suo mortaio, aveva raggiunto la Breda e, afferratala per portarla in salvo, era stato colpito a morte nel momento in cui stava uscendo dalla postazione. Istintivamente gli passai una mano sulla fronte come per chiudergli gli occhi, per dargli l’estremo saluto. Avrei voluto dargli un bacio per quello che aveva fatto anche per me, ma non c’era tempo per sentimentalismi, bisognava sottrarre l’arma al nemico e continuare la lotta.

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Mentre il cap. magg. Campagnoli lo teneva a bada con le sole bombe a mano, misi in salvo la mitragliatrice affidandola all’unico servente ancora valido. Intanto i mortai avevano stretto ancor più il cerchio. Gli assaltatori tedeschi, evidentemente provati, non riuscivano ad andare avanti e, sentendosi “ingabbiati”, incominciarono a “mollare”. Mi fu possibile così raggiungere l’altra mitragliatrice, quella puntata verso Roma. Trovai che i serventi, di iniziativa, avevano scelto un’altra postazione dalla quale erano già intervenuti in favore dei mortai. Anche quest’arma però si inceppava. Gli uomini erano avviliti. Cercai di infondere loro fiducia assicurandoli che avrei pensato io a farla funzionare. Mi feci cedere il posto dal “tiratore”. Ordinai al Gran. Ottavi Ezio di cercarmi dell’olio: avremmo provato a lubrificare. Nell’attesa, con l’aiuto del Gran. Caponetti, cercavo di sparare disincagliando ogni volta il carrello d’armamento battendo col calcio di un fucile. Dopo un po’ tornò il Gran. Ottavi, ma a mani vuote. Gli dissi allora di portarmi una borraccia d’acqua. Mi era venuto in soccorso il ricordo del racconto dei colleghi del 3° Granatieri i quali in Grecia […] lubrificavano le Breda con la neve. Mi venne così l’idea dell’acqua. Giunse l’Ottavi con la borraccia. Aprii la scatola dell’arma e vi spruzzai dentro alcune gocce. Il risultato non fu brillante. Pensai di aumentare la dose ma la situazione non migliorò. Decisi di ripetere l’esperimento aumentando ancora la dose: l’arma riuscì a sparare alcuni colpi di seguito. Preso dalla disperazione (che fino allora ero riuscito a nascondere con risultati egregi), riempii d’acqua quasi tutta la scatola della mitragliatrice e il miracolo si avverò! Non mi sembrava di essere un tiratore, ma un conduttore di macchina a vapore. Sfruttando la mia qualità di vecchio “tiratore scelto”, agendo opportunamente sulla “vite dei movimenti micrometrici”, riuscii a […] fare la barba al ciglione prospiciente la spianata antistante l’ingresso al Poligono della Cecchignola, sul quale i tedeschi si erano spostati per fare dall’alto tiro di infilata nelle nostre postazioni.

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Il risultato alla lunga fu eccellente: il nemico fu costretto a desistere e il tentativo di sfondare in quello che essi avevano ritenuto il punto più debole era fallito per sempre. La lotta sembrava dovesse avere un attimo di sosta. Presto però si riaccese con un’azione portata sul fronte sud-est del Caposaldo, in direzione dello schieramento dei pezzi di artiglieria. Il combattimento fu aspro e raggiunse il massimo quando lo stesso comandante della Batteria, Capitano Lucente, nel tentativo di sbarrare ad ogni costo la strada al nemico, cadde ferito gravemente: dopo qualche giorno moriva. Alla sua memoria sarebbe poi stata concessa la medaglia d’argento al Valor Militare. Allo stremo delle possibilità – il combattimento si protraeva da oltre nove ore con fasi molto violente – fummo costretti a lasciare le nostre posizioni. Riordinatici in una zona defilata, il Comandante del Caposaldo formò un reparto di volontari guidato dagli unici due ufficiali in servizio permanente: il Ten. Pasquale Suriani e il sottoscritto. Rioccupammo le postazioni che avevamo dovuto abbandonare, soccorremmo i feriti tra i quali il Cap. Lucente, catturammo dei prigionieri. Dalla loro bocca (uno di essi parlava abbastanza bene l’italiano) sentimmo dire che se in Sicilia i soldati italiani avessero combattuto come i Granatieri, gli “alleati” non sarebbero sbarcati. I combattimenti a questo punto (potevano essere le dodici e trenta o le tredici) si calmarono e noi potemmo mantenere le posizioni, privi di ogni contatto con i nostri Comandi e senza rifornimenti di sorta. Nelle prime ore del pomeriggio un’autoblinda del Montebello ci raggiunse. Dopo un po’, un’auto tedesca con bandiera bianca si avvicinò a noi. Ne scesero due ufficiali per parlamentare: il solito espediente, che poi sapemmo avevano usato anche agli altri Capisaldi! Dopo poco se ne andarono e un concentramento di artiglieria a base di srapnel ci mise a mal partito. L’autoblinda, colpita, andò in fiamme. Continuammo a resistere disperatamente come potevamo, dal momento che sapevamo che i rifornimenti non sarebbero mai giunti. L’unica forza che ci sorreggeva era il senso del dovere. Al calar della sera i combattimenti diminuirono d’intensità. Incominciammo, come da ordini, a ripiegare. Si ruppe così il contatto col nemico. Ci dirigemmo prima verso l’Ardeatina e poi verso l’Appia Antica. Alcuni contadini ci rifocillarono come poterono, offrendoci dei meloni dei quali prima mangiammo il frutto e poi la buccia. Eravamo rimasti con poche munizioni. L’indomani (il giorno 10), schieratici sulle posizioni tenute dall’artiglieria contraerea posta a difesa della Capitale, sostenemmo per tre ore un furioso combattimento cercando di dosare molto bene le munizioni. I tedeschi non riuscirono a passare e rinunciarono al tentativo. Rotto il contatto, considerate le scarse possibilità che avevamo di continuare il combattimento specie per la mancanza di munizioni, fummo costretti a riprendere il ripiegamento, allo stremo delle nostre forze. Raggiungemmo così Santa Croce in Gerusalemme e di qui, passando per San Giovanni in Laterano, verso mezzogiorno eravamo al Colosseo.