La Divisione Granatieri di Sardegna, nell’organizzazione della difesa di Roma, oltre ai 13 capisaldi schierò posti di blocco interni a sbarramento delle rotabili principali.
Anche in detti presidi armati si ebbero azioni di guerra che videro i Granatieri e gli artiglieri, oltre ai reparti inquadrati nella Grande Unità, protagonisti di atti di valore degni di essere ricordati.
Particolarmente significativo è quanto avvenne al posto di blocco n.6.
Il posto di blocco era situato sulla Via Salaria all’altezza del ponte sull’Aniene temendosi soprattutto azioni di paracadutisti che si avvalessero, per lo sbarco, del vicino Aeroporto del Littorio (oggi dell’Urbe).

ponte aniene

Nel corso della mattina del giorno 9 non vi furono movimenti di truppe tedesche. Si incominciarono a vedere alcuni soldati sbandati appartenenti a reparti italiani dell’esercito e dell’aviazione; il loro vestiario era molto sommario, la maggior parte era soprattutto senza giacca, qualcuno addirittura in mutande. Furono fermati e fatti affluire in un terreno contiguo al posto di blocco sorvegliati dai granatieri. Ma con il passare delle ore il numero degli sbandati aumentava a dismisura. Era una massa che forzava nei due sensi il passaggio gridando «è finita la guerra, ce ne torniamo a casa!» Finché possibile furono fermati poi, essendo numerosi, non fu possibile trattenerli. Faceva un certo effetto veder da una parte transitare questa massa di gente che di militare non aveva più nulla, né portamento né divisa, e dall’altra vedere i granatieri che continuavano a far servizio di guardia alle armi dandosi il cambio nei turni prestabiliti.
Verso sera arrivò dal centro di Roma un autocarro tedesco. Fu fermato e da esso scesero, oltre all’autista, 22 Ufficiali tedeschi.
Erano di corpi diversi e di vario grado. Dissero «guerra finita, andare Florenz, Bozen, Brenner». Il Comandante del posto di blocco, Sottotenente Perusini, si fece consegnare le pistole. Il loro atteggiamento non sembrava ostile, sembravano soltanto desiderosi di tornare in Germania. Tra loro c’era un tenente colonnello della Luftwaffe che parlava un po’ di italiano e disse di essere professore all’Università di Monaco. Passavano le ore ed il comandante del posto di blocco non sapeva cosa fare. L’Ufficiale non poteva trattenerli. Venne quindi l’idea di condurli alla Caserma Umberto I del 2° Reggimento Granatieri in Santa Croce.

Da qui la testimonianza del Comandante del posto di blocco
Salgo sul loro autocarro. Sono solo ma non mi accade nulla. È notte fonda e attraversiamo una Roma deserta. Arriviamo alla Caserma e trovo Giovannini che è capitano d’ispezione. Gli racconto i fatti e lo prego di prendere gli ufficiali tedeschi che ho fatto scendere dall’autocarro e sono nel cortile della caserma. Giovannini mi fa delle difficoltà perché non ha avuto alcun ordine in proposito.
Con Giovannini ero in confidenza fin da quando era tenente e gli dico “fai una cosa telefona a casa al Col. Perna che è stato il nostro Comandante in Yugoslavia e ci conosce bene, spiegagli il fatto e chiedi istruzioni”.
Giovannini accetta l’idea e poco dopo ritorna e mi riferisce che il Colonnello gli ha detto che «Perusini lasci subito liberi gli ufficiali tedeschi perché non ci sono ordini di trattenerli!»
Risalgo sull’autocarro con gli ufficiali tedeschi, ritorno al posto di blocco e li lascio liberi di andare al nord. Riconsegno le pistole ma mi fanno presente che ne manca una.
Il 10 settembre non ci sono più collegamenti, mancano viveri, continua il passaggio di militari sbandati.
Nel pomeriggio verso le ore 16 soldati tedeschi armati, venendo dalle parti dove si trova un centro ospedaliero tedesco (non lontano da piazza Vescovio), si dirigono alla volta degli automezzi dell’Aeroporto che erano decentrati nelle immediate vicinanze del posto di blocco con evidente intenzione di impadronirsene. Mi reco immediatamente dal maggiore che li comanda per conoscere esattamente le sue intenzioni. Mi risponde che gli automezzi servono per andare verso il nord. Faccio notare che si tratta di automezzi italiani e, pur non essendo essi sotto il mio diretto controllo, non posso acconsentire che vengano presi senza un ordine dell’esercito italiano. Dopo queste parole mi accorgo che due soldati tedeschi si sono messi alle mie spalle e tengono le loro armi puntate contro di me. Decido di prendere tempo e dico al maggiore che avrei telefonato al mio comando (in realtà sapevo benissimo che i telefoni non funzionavano!) per ricevere ordini e gli chiedo cinque minuti di attesa invitandolo ad evitare incidenti. Il maggiore tedesco mi da la sua parola.
Mi allontano, ma non sono ancora arrivato al posto di blocco quando i tedeschi mi sparano contro. Mi getto a terra e coperto dal terreno arrivo alla postazione di una nostra mitragliatrice che non si vedeva perché coperta da frasche.
Naturalmente l’arma era rivolta verso l’esterno del posto di blocco. Ordino al granatiere di sentinella di spostarla in direzione dei tedeschi.
C’è un momento di tregua, non so bene cosa fare, sono completamente all’oscuro di come altrove vadano le cose, la notte prima mi è stato detto di lasciare liberi gli ufficiali tedeschi perciò penso che i tedeschi sono forse da considerarsi ancora come nostri alleati e comunque non come nemici.
Due soldati tedeschi salgono sull’argine e ci troviamo faccia a faccia, loro hanno le pistole mitragliatrici e me le puntano contro. Mi viene in mente di gridare in tedesco «kamerad nein hier, ist verboten!» I due abbassano le armi e se vanno. Ma subito dopo ritornano indietro sparando a tutto spiano. Mi vengono allora in mente le parole del messaggio del Maresciallo Badoglio «essi reagiranno contro chiunque…». In quel momento arriva Rabusin e rispondiamo al fuoco.
Il combattimento continua, i tedeschi sparano molto. Noi siamo stati presi alle spalle, le nostre armi erano tutte orientate verso l’esterno della città. Siamo soltanto in otto e cioè 3 ufficiali (Rabusin, Guarnati ed io) e cinque granatieri, quelli che in quel momento erano di guardia, però ci difendiamo bene e i tedeschi non riescono a vedere esattamente da dove spariamo. I tedeschi hanno diversi caduti e si ritirano verso gli ospedali, prendono qualche automezzo, anche un autocarro rosso con idranti dei pompieri ma noi lo colpiamo e rotola giù per la scarpata.
I tedeschi pur indietreggiando continuano a sparare e mi preoccupa la posizione del nostro posto di blocco perché sulla sinistra, al di là della Via Salaria, c’è una collina che domina la nostra posizione. Se i tedeschi la occupano ci mettono subito fuori combattimento. Decido di andarci. Prendo un mitragliatore Breda 30 e mi avvio. Subito mi affianca il mio attendente gran. Edgardo Redighieri di Reggio Emilia.
Devo attraversare allo scoperto la Via Salaria battuta da continue raffiche di mitragliatrice. Penso di tentare di passare tra una raffica e l’altra. Capisco che è rischioso e dico a Redighieri di non venire perché è troppo pericoloso. Mi lancio attraverso la strada e passo. Redighieri si lancia subito dietro di me. Lo rimprovero per avermi disubbidito ma mi dice «signor tenente devo vendicare mio padre che è stato ferito dai tedeschi nell’altra guerra!»
Ci arrampichiamo sulla collina, l’ultimo tratto è molto ripido e devo procedere in ginocchio, devo fare presto, prima dei tedeschi. Fa molto caldo, sono tutto sudato i pantaloni si sono strappati all’altezza delle ginocchia. Riesco ad arrivare in cima e vedo una pattuglia di tedeschi con una mitragliatrice che veniva a prendere posizione. Mi vedono anche loro e si ritirano.
Andiamo verso il centro ospedaliero, si uniscono a me dei civili ed incomincio a fare dei prigionieri. Mi metto a lato dell’ingresso dell’ospedale e mano a mano che i tedeschi fanno per uscire gli faccio un grido, loro mi vedono che ho l’arma puntata contro e gettano le armi. Ma sono molti e per terra ci sono decine e decine di fucili, pistole e pistole mitragliatrici. Erano degli strani ospedali! Obbligo tutti i tedeschi a tenere le mani alzate ma sono tanti e io ho solo un caricatore con venti colpi. Fortuna che proprio lì vicino c’era un grosso scavo nel terreno per una casa in costruzione e ordino a tutti di andare dentro questa grande buca. Eseguono subito gli ordini che faccio dare in tedesco. Ho chiesto infatti se c’era un interprete, lo trovo, mi affianca, si mette sull’attenti e assumendo un aria di comando ripete i miei ordini.
Il tempo passa e non so cosa fare. I tedeschi sono nella buca e con le mani sulla testa ma noi siamo solo in due ed anche con i civili che si sono uniti a noi siamo sempre troppo pochi. Fortuna che arriva un reparto di bersaglieri. Faccio caricare tutte le armi su un autocarro e pretendo che prendano i prigionieri tedeschi. Non ne sono molto entusiasti, anche loro non avevano ordini chiari.
Ritorno al posto di blocco. Le perdite tedesche sono state di 16 morti contati sul terreno e diversi feriti.
Nella notte tra il 10 e l’11 settembre ci accorgiamo che i tedeschi ci stavano circondando; le forze del posto di blocco per le defezioni erano ormai ridotte ai soli granatieri per cui riteniamo necessario ripiegare sul comando di settore situato sulla Via Nomentana (Casal dei Pazzi). Lo spostamento viene eseguito all’alba utilizzando gli automezzi dell’aviazione.
Durante il percorso un aereo ci mitraglia ma senza danni. Al Comando di settore ci consigliano di andare alla caserma di Pietralata. Arriviamo a Pietralata e mi si apre il cuore quando vedo una quantità di mezzi in perfetta efficienza. Mi dicono che vengono da Pordenone. Ci sono tre generali che discutono ma non prendono alcuna iniziativa. Mi avvicino e capisco che oramai è tutto finito. Allora penso che i nostri granatieri non possono finire la guerra come quella massa di soldati che ho visto passare al posto di blocco. Perciò li raduno, li ringrazio per il servizio prestato e per il dovere compiuto fino all’ultimo. Parlo ancora dell’Italia, della nostra Patria e cerco di dire parole di speranza. Poi dichiaro che da quel momento sono messi in congedo. Il sergente maggiore anziano fa presentare le armi. Siamo molto tristi e molto commossi.
Poi per ultima cosa raduniamo tutte le armi e le munizioni e una squadra cerca un posto dove sotterrarle. Dopo un’ora mi riferiscono di averle sotterrate vicino all’Aniene.
È quasi sera e io vado verso Roma dove trovo un tram che mi porta a casa.